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Zaha Hadid. Quando la forza incontra la femminilità

Nei miei anni di studio e durante la mia carriera di architetto fino ad oggi, sono stati tanti i personaggi che mi hanno affascinata e influenzata. Un posto speciale dentro di me, però, è riservato senza dubbio a Zaha Hadid. Se il nome non vi dice nulla, sappiate che è l’unica donna ad essere riuscita a guadagnarsi davvero un posto tra i cosiddetti “archistar”. L’architettura è da sempre dominio del sesso maschile. Se tra i banchi delle università, nelle facoltà di architettura, le donne la fanno da padrone, le cose cambiano quando si tratta di professionisti universalmente riconosciuti a livello mondiale. Sembra non esserci spazio, in questa élite, per le donne.

Non voglio analizzare le ragioni di quest’assenza; sarebbe un discorso complicatissimo e non dispongo di sufficienti dati per svilupparlo adeguatamente. Fidatevi, però, quando vi dico che, a una donna, per arrivare a fama e riconoscimento mondiale come progettista architettonico, serve ben più del talento. All’interno di questo contesto, Zaha Hadid è arrivata a vincere il premio Pritzker (il “nobel” nell’architettura) nel 2004; prima donna ad aver ricevuto questo riconoscimento. Zaha Hadid è riuscita in questa impresa e l’intento di questo articolo è quello di celebrarla nel mese della sua nascita e ricordare a tutte noi donne, la forza che custodiamo e che troppo spesso temiamo di far esplodere.

Chi è Zaha Hadid?

Non voglio annoiarvi con mille dati, ma un breve inquadramento bibliografico è necessario per chi non la conoscesse. Nata il 31 ottobre del 1950 a Baghdad, ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia moderna, aperta e di grande cultura. Questo le ha dato la possibilità di lasciare l’Iraq per portare avanti a Londra il suo interesse per l’architettura. E in una città come Londra, se sei una mente geniale, hai la possibilità di confrontarti con molte altre menti geniali. Nel suo caso, queste menti erano alcuni tra gli architetti più illuminati del periodo, tra cui Rem Koolhaas, suo professore all’università e primo datore di lavoro dopo la laurea in architettura.

L’inventore degli 89 gradi

E’ stato chiaro da subito che Zaha Hadid fosse speciale. Aveva un modo di vedere l’architettura e creare forme, molto diverso dai suoi colleghi. Elias Zenghelis, suo professore, parlando di lei raccontò: “la chiamavamo l’inventore degli 89 gradi, Niente era mai 90 gradi. Aveva una visione spettacolare. Tutti gli edifici esplodevano in pezzi piccolissimi”. “Il modo in cui disegnava una scala ti avrebbe fatto battere la testa sul soffitto; lo spazio si riduceva, si riduceva finchè non ti fosti trovato nell’angolo più in alto contro il soffitto. Non le importava dei dettagli. La sua mente stava sulle immagini più ampie: quando si trattava di falegnameria, sapeva che potevamo sistemarla più tardi. Aveva ragione”.

“Sono sempre stata interessata al concetto di frammentazione e all’idea di astrazione ed esplosione, de-costruendo le idee della ripetitività e della produzione di massa” (Zaha Hadid 2007).

Le parole di Dejan Sudijc (direttore del Design Museum di Londra) raccontano bene le ragioni del successo di Zaha Hadid e della sua unicità: “Hadid appartiene a una generazione di progettisti formatisi sotto la guida di docenti che non potevano – o non volevano – costruire. Per loro l’architettura era confinata alla carta, era una speculazione critica sul suo destino e il suo ruolo in un clima ostile. La conquista più grande della Hadid è proprio aver cambiato questo quadro. L’avanguardia considera ancora con un certo sospetto i compromessi che il costruire nel mondo reale comporta: ma il suo Contemporary Arts Center di Cincinnati appena inaugurato è una prova convincente che la sua esplosiva visione dello spazio è capace di trasformarsi, senza minimamente rinunciare alle proprie ambizioni, in una vera architettura, funzionale a un luogo e a un compito specifico”.

Il suo stile e le sue opere

Questi aneddoti raccontano molto di come fosse Zaha Hadid, della sua unicità e del suo approccio alla progettazione, ma credo che per farvela conoscere davvero, la cosa migliore sia presentarvela attraverso i suoi progetti. Primo, perché sono davvero magnifici, secondo, perché parlano. C’è tantissimo della sua persona all’interno delle sue realizzazioni. Ci sono gli spigoli duri di chi ti sta di fronte con sguardo fiero e le linee curve della sua femminilità. Ci sono la sua forza e la sua eleganza. La sua ricerca di forme “impossibili”, accanto al pragmatismo, alla fruibilità e alla funzionalità di quello che dovrà essere il risultato.

Zaha Hadid: Heydar Aliyev center Baku
Heydar Aliyev center, Baku (Azerbaijan)
Zaha Hadid: City life Milano
City Life, Milano
Zaha Hadid: MAXXI Roma
MAXXI Museo del XXIesimo secolo, Roma
Acquatics Center, London
Zaha Hadid: Stazione alta velocità Napoli
Stazione dell’alta velocità, Napoli

Zaha Hadid e il suo ruolo di modello

Con la prematura scomparsa di Zaha Hadid nel 2016, non è sparito solo un grande architetto. Il progettista, in qualche modo rimane attraverso le sue realizzazioni. Per le donne in architettura, è venuto a mancare uno degli unici punti di riferimento al femminile; il modello che era riuscito a frantumare gli stereotipi e far credere che tutto fosse possibile. Avere una persona come Zaha Hadid dava una spinta alla propria autostima, dimostrando che le abilità personali possono portare al successo professionale, non importa con quante difficoltà. Era una motivazione ad impegnarsi in una carriera che non sembrava più preclusa alle donne, ma che poteva vederci in ruoli chiave.

Un Equity by Design report ha esaminato le ragioni dell’abbandono dell’architettura da parte delle donne. Quasi un terzo di coloro che sono uscite dalla professione ha indicato nell’assenza di un modello in cui identificarsi, una fattore decisivo per la loro scelta.

Essere un architetto donna non è facile… nemmeno quando vinci un Pritzker

Tolto l’amore per la professione, sono pochi gli stimoli che possono spingere una donna ad intraprendere la carriera di architetto. Zaha Hadid ha parlato spesso delle difficoltà incontrate lungo la sua carriera dovute al fatto di essere un architetto donna. Perfino nel momento di maggior successo, alla vittoria del Pritzker, la stampa non riusciva ad evitare di sminuire il lavoro di Hadid e deviare l’attenzione criticandola e deridendola su aspetti insignificanti. Si sono sprecati commenti sul suo look, sul suo inglese non perfetto, sul suo carattere duro e via dicendo.

Il critico di architettura del New York Times Herbert Muschamp, parlando di lei, l’ha indicata come una “grossa contadina rauca” i cui appetiti terreni le facevano preferire nutrirsi di testicoli di agnello piuttosto che di libri. Il reporter del Guardian Stuart Jeffries suggerì che il prezzo che Zaha Hadid ha pagato per i viaggi intorno al globo e per il suo successo, era quello di essere single e miserabile. A nessun collega maschio sono mai stati riservati commenti del genere.

La determinazione a non lasciarsi mortificare e la forza di combattere per il rispetto che le sarebbe stato dovuto le ha conferito, come da copione, la nomea di “diva antipatica”. Perchè noi donne, se vogliamo “di più” e non mostriamo un sorriso addomestcato, abbiamo qualcosa che non va.

Possiamo solo sperare che la figuradi Zaha Hadid abbia avuto sufficiente forza per fare da “apri pista”, per dare voce a un movimento, che inizia a vedersi, che chiede più uguagliaza e rispetto nel mondo dell’architettura. Che possa dare alle nuove leve, la voglia di metersi in gioco con obiettivi ambiziosi e concreti e soprattutto, la caparbietà per non lasciarsi abbattere e demotivare da un sistema patriarcale antidiluviano.

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