Era il 12 dicembre 2015 quando gli stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) firmarono quello che è comunemente chiamato l’Accordo di Parigi. Dopo quasi 10 anni di negoziati, durante la Conferenza di Parigi sul clima (COP21) i rappresentanti dei 196 Paesi membri siglarono finalmente tale patto. Il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici.
Probabilmente, anche se non ne conosci i dettagli, in questo 2020 avrai sentito citare diverse volte l’Accordo di Parigi. Primo, perchè quest’anno ne segna l’entrata in vigore, dopo essere ratificato, accettato o approvato da almeno 55 paesi che rappresentano complessivamente il 55 per cento delle emissioni mondiali di gas serra. E poi, perchè proprio uno dei paesi che più si è impegnato nelle trattative durante la presidenza Obama, con il presidente Trump ha avviato e concluso la procedura di uscita dall’accordo.
Proprio così: il 4 novembre gli Stati Uniti – il secondo responsabile delle emissioni di gas serra dopo la Cina – sono usciti ufficialmente dall’Accordo. Anche se il presidente eletto Joe Biden ha già assicurato che in caso di elezioni avrebbe immediatamente (ri)ratificato il documento. C’è ancora una speranza.
Ma per capire perchè questo Accordo è al centro del dibattito politico statunitense – e di riflesso, di quello mondiale – dobbiamo fare un passo indietro, e capire cosa prevede.
Cos’è l’Accordo di Parigi
Come già precisato, l’Accordo di Parigi è il primo accordo giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici. Il testo approvato alla Conferenza sul clima di Parigi del 2015 parte da un presupposto fondamentale:“Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta”. E richiede “la massima cooperazione di tutti i paesi” con l’obiettivo di “accelerare la riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra”.
La sera del 10 dicembre il presidente dell’assemblea della Cop21 e ministro degli esteri francese Laurent Fabius, ha presentato un nuovo progetto di accordo. Il testo è stato corretto, discusso e rivisto nel corso dei 12 giorni (e notti) di negoziati. E finalmente appoggiato dalle delegazioni dei 196 Paesi, a Conferenza in fase di chiusura.

REUTERS/Stephane Mahe
Cosa prevede l’Accordo di Parigi?
Il punto più importante è sicuramente costituito dall’obiettivo a lungo termine diventato ormai famoso: l’aumento della temperatura entro i 2°. Già alla conferenza sul clima di Copenaghen nel 2009, i paesi partecipanti si diedero l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura globale rispetto ai valori dell’era preindustriale. L’accordo di Parigi stabilisce che questo rialzo deve essere contenuto “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi”, sforzandosi di fermarsi a +1,5°.
Ma oltre a questo grande traguardo, l’Accordo di Parigi contiene anche strumenti di politica economica e internazionale molto importanti. Innanzitutto, è accordo vincolante e globale. A differenza del 2009, quando l’accordo si era arenato, al patto del 2015 ha aderito tutto il mondo. In più, l’accordo prevede:
- Controlli ogni cinque anni, cioè un processo di revisione degli obiettivi che dovrà svolgersi a cadenza quinquennale;
- Fondi per l’energia pulita. I paesi di vecchia industrializzazione sono tenuti ad erogare dal 2020 cento miliardi all’anno per diffondere le tecnologie sostenibili. Così facendo si spera die slegare l’economia dall’uso di combustibili fossili;
- Rimborsi ai paesi più esposti, con un meccanismo di rimborsi per compensare le perdite finanziarie causate dai cambiamenti climatici nei paesi più vulnerabili geograficamente, che spesso sono anche i più poveri.
Puoi leggere nel dettaglio i documenti e le implicazioni politiche dell’Accordo sul sito della Commissione Europea. Oltre che una presentazione dettagliata a cura del Ministero dell’Ambiente.
Impegno per il clima: a che punto siamo?
Con la ratifica dell’Accordo di Parigi, i singoli impegni per il clima sono diventati Nationally Determined Contributions (NDC) o “Contributi Nazionali Determinati”. Obiettivi climatici che le Nazioni si sono dati, in maniera autonoma e volontaria, per contenere l’aumento della temperatura entro i 2°.
Per l’Unione europea, ad esempio, questo impegno è definito dal quadro per il clima e l’energia 2030 adottato dal consiglio europeo. Ma come ha evidenziato un’analisi delle Nazioni Unite, allo stato attuale, gli NDC non sono in grado di garantire la “vittoria climatica”. In poche parole: gli Stati hanno scelto obiettivi troppo deboli. Anche eseguendoli alla lettera, la temperatura globale salirà oltre l’obiettivo della crescita inferiore appunto ai 2 gradi.
Il ruolo del Climate Action Tracker
Qui interviene il Climate Action Tracker. Si tratta di un’analisi scientifica indipendente elaborata da due organizzazioni di ricerca – il Climate Analytics e il New Climate Institute – che monitorano le azioni per il clima dal 2009. Un focus su 35 nazioni e l’Unione europea, che insieme coprono circa l’80% delle emissioni del pianeta.

Alcuni governi hanno segnalato l’intenzione di NON aggiornare i propri NCD entro il 2020 (e sono la grande maggioranza dei Paesi, ben 130). Ma nonostante questo, c’è un cauto ottimismo dovuto alla conferma di nuovi obiettivi più forti da parte di un gruppo di Paesi. Insieme sono responsabili del 23,5% delle emissioni globali e coprono il 15,3% della popolazione globale.
Dall’altra parte, ciò che preoccupa gli esperti di Climate Action Tracker e tutti noi che ci interessiamo a queste tematiche sono soprattutto tre paesi: Australia, Indonesia e Stati Uniti. Hanno popolazione vastissima e un’elevata incidenza di emissioni di gas serra. E non proporranno obiettivi più ambiziosi. Almeno finché l’insediamento di Biden non confermerà la speranza di una rivisitazione dei progetti di contenimento dei cambiamenti climatici, così come annunciato dal futuro presidente americano.
Fonti:
– Documenti sull’Accordo di Parigi sul sito ufficiale della Commissione Europea
– Il sito ufficiale del Climate Action Tracker